Massimo Recalcati della Residenza Gruber, residenza privata accreditata che si occupa di anoressia a Bologna, è supervisore clinico. Come si spiega l’aumento esponenziale dei casi di disturbo alimentare?
«La diffusione epidemica dei disturbi alimentari, soprattutto dell’anoressia e della bulimia, è dovuta al fatto che il nostro tempo è dominato da due grandi miti. Il primo è il mito dell’immagine del corpo umano di cui l’anoressia è l’indice patologico, il secondo è quello del consumo dell’oggetto che si manifesta nell’abbuffata bulimica. A questo si può aggiungere un’ulteriore ragione e cioè che il disagio che coinvolge le relazioni affettive del nostro tempo è particolarmente profondo».
Lei definì anoressia e bulimia malattie dell’amore. Ci aiuta a comprenderne l’essenza?
«I disturbi del comportamento alimentare non sono disturbi dell’appetito, ma della relazione. All’esordio di ogni anoressia o bulimia troviamo una ferita. E questa ferita riguarda soprattutto le relazioni primarie: è una ferita d’amore. È in questo senso che anoressia e bulimia sono malattie dell’amore».
A finire sul banco degli imputati, sono sempre genitori e società.
«Frequentemente troviamo un disturbo primario della relazione, con la madre o con il padre. Ma la diffusione epidemica della malattia dimostra che il disturbo è più ampio e riguarda proprio i miti del nostro tempo. L’anoressia è una passione sfrenata per l’immagine. La bulimia è una passione sfrenata per il consumo dell’oggetto. Ma sono entrambe disagi della relazione. L’anoressia è un tentativo disperato di difendersi da relazioni che feriscono; la bulimia evidenzia la dipendenza totale dall’oggetto. L’anoressica coltiva sempre un sogno di indipendenza e libertà. La bulimia è una forma di schiavitù e dipendenza».
Nei suoi trent’anni di studi e lavoro sull’argomento, ha visto cambiare i soggetti colpiti da questi disturbi?
«Alcune caratteristiche si sono modificate. Non è più una patologia della borghesia e dei ceti alti, ma è una patologia socialmente trasversale. Non è inoltre più una patologia identificabile con l’adolescenza ma che troviamo sia nell’infanzia che negli adulti. Oggi è poi più rara di ieri l’anoressia pura, cioè restrittiva, mentre sono sempre più frequenti miscele di comportamenti anoressici e bulimici».
C’è una ricetta per prevenire o almeno mitigare l’insorgenza di questi disturbi?
«Se dovessi dare consigli, rudimentali, ne indicherei due: innanzitutto di non sovrainvestire il cibo e il momento dell’alimentazione, cioè non far diventare l’alimentazione un caso. Quindi di non sovrainvestire gli oggetti e la loro importanza, ma dar valore alle relazioni e alla loro importanza».
E sulla società?
«Non esiste anoressia e bulimia nell’Africa nera. L’anoressia e la bulimia sono patologie endemiche del capitalismo avanzato. Dove il cibo è raro non esistono. Sono i miti dell’immagine e del consumo assieme alla scarsa attenzione prestata al valore affettivo delle relazioni a generare questi disturbi».
A livello sanitario, pensa che si possa fare di più?
«Sì, le strutture sono poche e la domanda è tanta. Ma bisognerebbe fare anche meglio. La cura non ha come bersaglio un appetito sregolato ma un soggetto singolo e le difficoltà che incontra nel vivere il proprio desiderio. Questo non è affatto un dato del tutto acquisito nella nostra cultura della cura».
Lei oggi è alla Residenza Gruber, ma in passato, e per dieci anni, ha lavorato come supervisore al reparto di Neuropsichiatria del Sant’Orsola.
«Bologna è un’isola privilegiata. Sia il reparto di del Sant’Orsola, ma soprattutto questa struttura, sono all’avanguardia, direi in Europa».