“E il corpo lo si conosce solo permettendogli di conoscere il mondo. Si conosce attraverso i sensi, attraverso gli altri e attraverso i nostri desideri: lo si conosce se si ha curiosità. L’identità non è mai data, è storia e racconto di sé, e proprio perché vissuta non è certa; la storia di ognuno è caratterizzata dall’incontro con gli altri e con il mondo, è fatta di sensazioni e di esperienze, non è lineare.”
Questo libro è un incontro di corpi, di teorie ma anche e soprattutto un contenitore di emozioni e di momenti, è storie di vicinanza e di relazioni, ma anche e soprattutto un percorso possibile alla ricerca dell’identità.
Questa storia si svolge in un Centro per i Disturbi Alimentari, luogo d’incontro di storie e di vita, di ricerche identitarie, di interminabili controlli sul proprio corpo oggetto ma è anche racconto di corpi in cambiamento che vogliono tornare a vivere, un luogo che inizialmente appare paradossalmente colmo di vuoto e poi si riempie di emozioni e di ricordi corporei che diventano storie.
Corpi che si muovono incessantemente perché “fermarsi è pensare e pensare è stare in contatto con il proprio vuoto e la mancanza di sé. E’ terrore.”
È il posto dove corpi costruiti dal giudizio e dalla ricerca ossessiva di messa a tacere del dolore attraverso i sintomi si presentano etichettati “io sono anoressica, io sono bulimica, io sono obesa”, ectoplasmi, né un nome né un cognome ma una diagnosi “se non sono anoressica non so chi sono” propongono e presuppongono un percorso di annullamento della vita, un’appartenenza ad un parassita che vive della propria anima e del proprio corpo, disturbo alimentare come compagno di viaggio, una stampella, un cappotto che tiene nascosto il vuoto del dolore, della solitudine, della sofferenza esistenziale, un’armatura che sembra contenere un involucro vuoto che ha paura di fare capolino e di scoprire che si può essere ed esistere.
“Lavorare il corpo è il lavoro della malattia, la modificazione, il controllo, il possesso dell’oggetto, è il percorso fatto sino al momento in cui la malattia viene vista come una difficoltà, quando la luna di miele con il disturbo giunge al suo capolinea, lavorare sul corpo presuppone l’agire dell’altro su un corpo che è ancora sull’allerta, che ha paura di sentire il vuoto ma prova a fidarsi, e lavorare col corpo è l’emozione, lasciarsi vivere, aprirsi al dolore e allo star bene, accettare la mezza misura che non vuol dire non sperare più nella felicità, ma piuttosto godere dei piccoli passi di benessere.”
E poi c’è un piccolo spazio, di ricerca personale, di psicomotricità, lo spazio del lunedì pomeriggio, momento in cui il corpo può prendere vita e può provare a tornare un corpo soggetto del mondo, si può cominciare a creare delle crepe nell’ossessione della perfezione irraggiungibile che nasconde e rende momentaneamente meno doloroso il vuoto.
“Il dispositivo è quello psicomotorio, i principi sono quelli della Pratica Psicomotoria di Aucouturier, osservare, partecipare, giocare per, e soprattutto esserci come Altro simbolico, come sostituto del caregiver primario, esserci profondamente, sentire con la pancia non solo ascoltare le parole, proporsi come altro significativo.
Il dispositivo è il setting, le regole, l’ascolto e la gestione del setting nel tempo e nello spazio, è la creazione di un ambiente che favorisca il desiderio di crescere.
È il dispositivo che deve poter permettere il desiderio, che garantisce a sicurezza, che permette la messa in gioco del Sé, che permette di vedere la paura, di guardarla e di poterla vivere, di sentirla meno distruttiva, di poter riconoscere il proprio muro e di raccontarlo.
Raccontare per poter creare distanza, l’obiettivo è decentrarsi, vedere e riconoscere per poterci lavorare sopra, il dispositivo permette di vivere il proprio vuoto pieno di paure, nella sicurezza di poter vivere quello che in quel momento, nel qui ed ora è possibile, nulla di più del “proprio possibile”
È lo spazio in cui il mio corpo soggetto si incontra con altri corpi soggetti in un dialogo fatto di sguardi, di avvicinamenti e di lontananze, di spazi e di separazioni, persone che parlano della loro storia senza pronunciare parola, è uno spazio in cui la paura, la speranza, il passato e il futuro si possono giocare simbolicamente.
“Giocare il corpo permette di viverlo senza la colpa, perché è un fare finta, è il gioco del lupo del bambino piccolo, che permette di prendere le distanze e di poter vivere l’aggressività sentendosi buoni, è il gioco della rabbia, della paura e della loro espressione, è un mettere delle parole e potersene allontanare; è un adulto che può permettersi di giocare a fare e rifare il bambino che era, è un ragazzo che può far finta di essere quello che sarà. Tutto questo è comunicare, dirsi delle cose per poter condividere le paure e le gioie e costruire.”
Questo libro è la storia del percorso di un gruppo che attraverso il corpo scopre, sperimenta e prova faticosamente a sperimentare il passaggio tra il “lavorare il corpo a lavorare con il corpo” e forse riesce anche a ritrovare il piacere di muoversi, di sentire, di raccontare attraverso il gesto.
Il mio percorso, “parlare di corpo e lavorare con i corpi” non è così semplice ed è mettere in discussione tutto, a partire dal proprio sentire che comunica con altri modi di sentire, impauriti e sfiduciati per arrivare ad affrontare le proprie insicurezze che diventano un terreno su cui giocare le insicurezze del gruppo, perché riuscire ad accettare le opinioni di corpi in difficoltà vuol dire ascoltare e ammettere di non aver mai provato nulla di simile, quindi, lavorare con il corpo vuol dire anche mettere il proprio corpo a disposizione e permettersi di ascoltare quel vuoto.
Dal Libro di Stefania Lanaro – sito web stefanialanaro.com