4 maggio 2015 dott.ssa Ameya G. Canovi Psicologa
John Bowlby sostiene che nello sviluppo l’individuo interiorizza uno stile relazionale a seconda del tipo di attaccamento che egli acquisisce con le figure accudenti.
Se lo stile di attacamento è sicuro il bambino riuscirà a interiorizzare questo legame che egli percepisce come rassicurante, protettivo. Il bambino con stile sicuro esplora l’ambiente, si avventura per il mondo, prende rischi, in quanto sente che alle sue spalle vi sono sponde sicure che lo conterranno, una base sicura a cui tornare.
Quanto più saldo è questo tipo di legame, tanto più egli oserà fare esperienze. Accade che a un determinato momento durante le tappe evolutive, avvenga l’interiorizzazione di questo legame, che diventa un modello operativo interno relazionale nell’età adulta. Winnicot sostiene che se il bambino ha avuto una figura accudente “sufficientemente” buona, egli interiorizza questa figura protettiva, e si sentirà al sicuro anche stando da solo. Il bambino che gioca da solo in presenza del genitore fa prove tecniche per apprendere a stare con se stesso, fino a quando egli pur non vedendo il genitore, saprà che torna, riuscirà a tollerare la frustrazione dell’assenza, come direbbe Bion.
Egli apprende a sostare nello spazio vuoto, dove non c’è nulla che arriva dall’esterno. Dove sembra che non stia accadendo nulla. E’ nell’allenamento a questo momento di non- fare, nel coltivare la presenza a se stessi , che si impara a nutrire l’essere. Momenti di distacco dall’Altro sono fondamentali. Eshter Buchholz, una psicanalista americana, sostiene l’importanza fisiologica per i circuiti neuronali del cervello di disconnettersi dalle stimolazioni esterne. Il bisogno di silenzio è vitale, permette alle cellule cerebrali di recuperare, altrimenti il circuito resta perennemente attivato, acceso, pena l’esaurirsi delle risorse. Riuscire a spegnere tale circuito, dargli il tempo per staccare dagli stimoli è un bisogno vitale. E non è sufficiente il sonno. Nel sonno si attivano altri process.
E’ necessario fare questo recupero nella veglia. Succede però che a tale operazione non siamo abituati, non esiste una educazione alla solitutide. Nella lingua inglese la parola solitudine può essere tradotta in due modi “loneliness” termine con una connotazione negativa, che indica il sentirsi soli e di conseguenza infelici di questa condizione, e “aloness” sentimento che indica la capacità di stare da soli, con se stessi, e implica pertanto una competenza. A tale pratica la società occidentale non abitua i propri bambini. Tutta l’attenzione è rivolta verso la socializzazione, a volte inseguita a tutti i costi.
Lo stare con se stessi non è visto come una abilità da coltivare, nello sviluppo. Il bambino che gioca da solo viene visto con diffidenza, preoccupazione (Cigala, Corsano 2004). Viene iperstimolato a connettersi. Si rischia così di restare sempre accesi, collegati, e non riusciamo mai a staccare la spina. Così da adulti la solitudine viene vista come un abisso in cui non si è in grado di sprofondare.
E si fa di tutto per evitare l’incontro con se stessi.
Non avendo interiorizzato una base sicura, un modello operativo interno che permette di sentirsi al sicuro e “a casa” dentro se stessi, si cerca un palliativo fuori. Il momento di sosta nello spazio vuoto viene temuto, aborrito, evitato con ogni mezzo. In realtà è proprio in questo iato, nell’incertezza, nello sconosciuto che si spalancano le infinite possibilità dell’essere.
E’ nella meditazione che da adulti si riscotruisce questo spazio vuoto, lo si esplora e si apprende a non fuggire, a so-starvi. Nel silenzio, solo nel silenzio completo, si può conoscere lo spazio vuoto e sprofondarvi con coraggio, un salto nell’abisso di sé.
Un viaggio affascinante quello della conoscenza di se stessi, da compiere stando da soli, ritirando la propria energia, come una marea dell’oceano che a volte incontra e lambisce la spiaggia, per poi ritirarsi, ad ascoltare il proprio ritmo, la propria, unica, canzone.